Caricato su un aereo e rispedito in Algeria papà Mohamed, da 21 anni in Italia

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14 07 2014

(a cura di Stefano Pasta) «Ci hanno spaccato la famiglia», mi dice il romanoalgerino Mohamed da Algeri. «Abbiamo bisogno del suo appoggio di padre e marito», aggiunge la romanoperuviana Gisella da Roma. Invece il loro figlio maggiore, 13 anni, non dice niente: si chiude in camera e piange a letto. Mohamed, 41 anni di cui 21 ininterrottamente in Italia, è stato caricato su un aereo e rispedito in Algeria il 21 marzo scorso, dopo tre mesi di detenzione nel Cie di Ponte Galeria a Roma, quello della protesta delle bocche cucite. Racconta: «Al pomeriggio mi hanno chiamato per un colloquio con l’avvocato e mi hanno annunciato che dopo 2-3 ore sarei partito. Continuavano a guardarmi per paura che ingoiassi delle lamette per suicidarmi, dato che in tanti l’hanno fatto. Ho chiamato mia moglie per avvisarla e farmi portare dei vestiti. Sbarcato ad Algeri, la polizia locale mi ha consegnato a mio fratello, che non vedevo da 21 anni». Il motivo? Mohamed non aveva il permesso di soggiorno. Non è contato nulla che negli ultimi 21 anni – più di metà vita – non fosse mai uscito dall’Italia, che avesse qui due figli di 8 e 13 anni e una moglie anche lei da 21 nel Belpaese.

Così prevede la legge italiana. Provaci a spiegarlo ai suoi due figli… Gli ripetono sempre: «Papà, tu chiami ma non vieni. Perché?». «Il giorno del compleanno del minore – racconta Gisella – avevo fatto dei dolcetti e invitato i suoi amici, ma lui non è voluto uscire dalla camera, diceva che veniva solo se c’era il suo papà». All’epoca, era tra le gabbie di Ponte Galeria. Il maggiore invece «rassicura il più piccolo, gli dice che tornerà presto, ma poi si chiude in camera a piangere di nascosto». Allora Gisella lo abbraccia. Lei, che lavora come badante a Roma per 600 euro al mese, deve mantenere da sola la famiglia: «Alle 5.30 di mattina mi alzo per andare al lavoro, mentre il figlio più grande prepara la colazione al fratellino e poi vanno a scuola da soli. Cerco di non farlo vedere ai miei figli, ma anche io sto male, non ce la faccio più».

Da alcuni mesi, non può più permettersi l’affitto e con altre 170 famiglie senza casa ha occupato l’ex hotel Congress di via Prenestina. Nel 1992, Mohamed scappò dalla guerra civile in Algeria e, per evitare ritorsioni sui genitori rimasti in patria, diede un nome falso. Corresse l’errore quando nacquero i figli, ma non riuscì mai ad ottenere un permesso di soggiorno. Lo scorso anno, fu condannato a sei mesi per il furto di una macchina fotografica. Secondo quanto previsto dalla Direttiva Amato-Mastella del 2007 avrebbero dovuto identificarlo già in prigione; peccato che, come avviene praticamente sempre, la Direttiva sia stata completamente disattesa. Al termine della pena, Mohamed è stato quindi trasferito nel Centro di Identificazione e Espulsione di Ponte Galeria, tra grate fino al cielo, camere di sorveglianza e rumore di lucchetti, e poi direttamente ad Algeri. Dice: «Ho sbagliato, lo so, ma ho estinto la mia pena con i 6 mesi di carcere, come chiunque commetta questo reato». Il Cie e il rimpatrio sono stati una pena aggiuntiva. Nei Cie italiani, dove lo Stato spende 55 milioni di euro l’anno per detenere circa 8mila persone (la metà non vengono rimpatriate), molti sono padri di famiglia strappati ai loro figli, o giovani cresciuti qui che parlano con accento romano, napoletano, o milanese.

Ad Algeri, Mohamed tifa Italia ai Mondiali e si sente straniero in quella che la legge considera la sua patria: «Spesso penso: “Questi algerini sono diversi”», dice. Poi scoppia a piangere: «Io voglio essere accanto ai miei figli, portarli al parco e ritirare le loro pagelle a scuola, non basta parlare via Skype o su Facebook». Gli chiedo se c’è un momento particolare di cui sente la mancanza. Risposta: «Ogni secondo». Mi spiega che, se anche avessero le possibilità economiche, ora i figli non potrebbero andare a trovarlo: «Sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno. Infatti, non sono mai stati fuori dall’Italia ma per la legge sono stranieri, peruviani». Mohamed ha presentato ricorso contro l’espulsione, «ma l’avvocato non risponde più, so praticamente di non avere speranze». Cosa farà? La previsione è facile: proverà a venire in Italia senza documenti. Illegalmente secondo la legge italiana. Certo, ma provaci tu a spiegargli che deve rispondere «mai» tutte le volte che i figli gli chiedono «quando ci vediamo»…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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