Oggi la Giornata mondiale del malato

Oggi, sabato 11 febbraio, si celebra la “Giornata mondiale del malato”, istituita da Giovanni Paolo II per sensibilizzare i cristiani e la società civile alle tematiche della salute e della malattia, della vita e della morte. Il tema proposto quest’anno dalla Diocesi ambrosiana, in preparazione al VII Incontro Mondiale delle Famiglie, riguarda l’accoglienza del malato in famiglia e, di conseguenza, gli oneri che questa si assume.
Le famiglie, spesso gestiscono al loro interno, malattie degenerative, critiche e complesse particolarmente riguardanti i genitori anziani; problema ancora più complesso per i “figli unici”. Di conseguenza, la nostra attenzione, dovrà seguire due percorsi: l’accoglienza e la cura che la famiglia deve offrire al malato e l’accompagnamento umano e pastorale che la comunità cristiana deve avere nei riguardi della famiglia, dato che quando un componente si ammala, il nucleo famigliare è sconvolto e profondamente coinvolto nella situazione del congiunto.
Interessante, a questo proposito, l'intervista che, sull'argomento, il cardinale Ravasi ha rilasciato lo scorso 26 novembre al quotidiano La Stampa.
Ravasi: «La scienza
non basta,
nella malattia c’è Dio»
«Vengo invitato sempre più spesso a convegni medici: mi stia crescendo la consapevolezza che la malattia e il dolore sono un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico. L’accompagnamento umano, psicologico, affettivo e anche spirituale è tutt’altro che secondario. C’è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina…». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura, è abituato a confrontarsi con chi non crede. Ma di fronte alla domanda drammatica sul perché della sofferenza e del dolore – tema del convegno organizzato oggi a Milano dai Medici Cattolici – non si rifugia nelle formule di rito.
Come risponde al quesito sul perché della malattia?
«La scrittrice americana Susan Sontag nel 1978 raccontò la sua esperienza di ammalata di cancro in un libro intitolato La malattia come metafora. Definizione interessante: la malattia non è mai solo una questione biologica. Quando siamo ammalati abbiamo bisogno di essere confortati, guardiamo alla vita in modo diverso, cambiano le priorità e se la malattia si aggrava cambia anche la scala dei nostri valori.E anche chi non crede può talvolta arrivare a chiedere a Dio il perché di quanto gli accade. Comunque la prima risposta è semplice, logica e razionale».
Qual è la «razionalità» iscritta nella malattia?
«Il dolore è una componente della finitezza delle creature. Un dato che nella nostra società orgogliosa e tecnologica, che qualcuno ha definito “post-mortale”, non si vuole accettare. Si occulta in tutti i modi la morte, o magari si insegue la possibilità di vivere fino a 120 o 130 anni, continuando ad allontanare l’appuntamento. Dobbiamo invece avere il coraggio di guardare in faccia malattia e morte come componenti dell’esistenza».
Una capacità che sembra perdersi in Occidente, ma che è ancora presente in altre culture…
«È vero. Quando ero in Iraq a fare degli studi archeologici, un giorno uno dei miei collaboratori locali mi invitò a casa sua, così avrei potuto vedere suo padre che stava morendo. Ci andai e vidi quel vecchio adagiato al centro dell’unica grande stanza della casa, con le donne che cucinavano da un lato e i bambini che giocavano dall’altro e che ogni tanto si avvicinavano al nonno per toccargli la mano».
La coscienza della nostra finitezza non basta però a spiegare il dolore innocente. La malattia dei bambini, la sorte che si accanisce con chi ha già patito disgrazie.
«Il problema è la distribuzione del male. Resta drammatica quella pagina de La Pestedi Albert Camus, dove davanti alla morte di un bambino si afferma: non posso credere a un Dio che permette questo. È l’eccesso del male. Qui ha inizio la frontiera in cui si attestano le religioni con le loro risposte, che non esauriscono il mistero. Nel Libro di Giobbe, al culmine della disperazione umana, Dio parla e spazza via tutte le spiegazioni e i tentativi di razionalizzare. La soluzione può essere solo meta-razionale, globale e trascendente e si trova nell’incontro con Dio».
La risposta del cardinale Ravasi?
«È quella cristiana, totalmente diversa dalle altre religioni. Perché nel cristianesimo è Dio stesso, in Cristo, che non solo si piega verso di noi per spiegarci il significato della sofferenza, non solo in qualche caso guarisce grazie alla sua onnipotenza con i miracoli, ma entra nella nostra umanità e prova tutto il dolore dell’uomo. Il dolore fisico, morale, la paura, il silenzio del Padre. E alla fine anche la morte, che è la carta d’identità dell’uomo, non di Dio. Diventa un cadavere, senza mai cessare di essere Dio, soffre tutta la sofferenza umana e vi depone un germe di trasfigurazione, che è la resurrezione, fecondando la nostra natura mortale».
Questo però non cancella e il dolore né la domanda. Anche per chi crede.
«Gesù Cristo, il Figlio di Dio non è venuto a cancellare il dolore, tant’è vero che lo ha vissuto. Ma lo ha assunto su di sé e trasfigurato con il germe dell’infinito, che è preludio d’eternità per noi. Il cristianesimo è una religione fieramente carnale e vicina al dramma di chi soffre – al contrario di tante altre religioni – perché per i cristiani Dio è diventato un uomo ed è morto in croce. I cristiani, come attesta la nascita degli ospedali, hanno sempre avuto questa attenzione verso i malati, perché credono in un Dio che è stato sofferente, ha conosciuto la morte ed è risorto».
Il suo dicastero ha organizzato di recente un convegno dedicato alle staminali adulte, via alternativa all’uso di quelle embrionali. Chiesa e scienza si possono ritrovare insieme?
«L’utilizzo delle cellule embrionali sta ottenendo risultati minimi rispetto a quelli ottenuti con le staminali adulte: si cancella così il luogo comune che ci attribuisce la responsabilità di non voler alleviare le sofferenze di tanti malati. Proprio le staminali adulte, che non hanno alcuna controindicazione di tipo etico, stanno portando risultati incoraggianti in campo oncologico, e contro il Parkison e l’Alzheimer».
Andrea Tornielli (da «La Stampa», 26 novembre 2011)
Benedetto XVI: promuovere la vita vuol dire dare dignità anche a chi vive nella malattia
Nella stessa giornata Benedetto XVI ha rinnovato l’appello «a custodire e a promuovere la vita, in qualunque stadio e in qualsiasi condizione si trovi, riconoscendo la dignità e il valore di ogni singolo essere umano».
«Il servizio di accompagnamento, di vicinanza e di cura ai fratelli ammalati, soli, provati spesso da ferite non solo fisiche, ma anche spirituali e morali, vi pone in una posizione privilegiata per testimoniare l’azione salvifica di Dio, il suo amore per l’uomo e per il mondo, che abbraccia anche le situazioni più dolorose e terribili», ha detto il Papa ai partecipanti alla conferenza internazionale, dedicata al tema «La pastorale sanitaria a servizio della vita alla luce del magistero del beato Giovanni Paolo II».
«Il Volto del Salvatore morente sulla croce, del Figlio con sostanziale al Padre che soffre come uomo per noi – ha proseguito –, ci insegna a custodire e a promuovere la vita, in qualunque stadio e in qualsiasi condizione si trovi, riconoscendo la dignità e il valore di ogni singolo essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio e chiamato alla vita eterna».
Secondo papa Ratzinger, «questa visione del dolore e della sofferenza illuminata dalla morte e risurrezione di Cristo ci è stata testimoniata dal lento calvario, che ha segnato gli ultimi anni di vita del beato Giovanni Paolo II»: «la fede ferma e sicura – ha aggiunto il Pontefice – ha pervaso la sua debolezza fisica, rendendo la sua malattia, vissuta per amore di Dio, della Chiesa e del mondo, una concreta partecipazione al cammino di Cristo fin sul Calvario».