\’Vite di passaggio\’, subsahariani clandestini in Africa

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23 12 2012

Rimpatri forzati, violazione dei diritti umani e disprezzo segnano la vita dei migranti subsahariani bloccati per anni in Marocco e Algeria. Les aventuriers, gli avventurieri, come li chiamano a Sud del Sahara, vivono in attesa di tentare l’ingresso in Europa, che spesso appalta il lavoro sporco per bloccarli ai Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Clandestini in terra africana, perché potenziali clandestini in terra europea. Spesso sono possibili richiedenti asilo politico, ma questo è semplicemente ignorato dal Marocco e dall’Algeria, come racconta il rapporto “Lives in transition” del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS).

Stefano Pasta racconta – su Corriere.it – due storie.

Armel, 37 anni, camerunense, ha attraversato il deserto: “Muoiono così tante persone, non puoi neanche immaginarlo. Semplicemente cadono a terra senza più alzarsi e sono coperti dalla sabbia. Il mondo li dimentica, ma io non potrò mai scordare i compagni che ho visto morire accanto a me”. Giunto in Marocco, due anni di vita nascosta, con il terrore di essere rispedito indietro. A Fnideq, l’Europa è vicinissima: c’è il confine con Ceuta e Melilla, l’enclave spagnola in terra africana. Ma in realtà dista molto di più dei pochi chilometri segnati sulla mappa.

Lì, la vita per i migranti è comunque difficile – la chiamano “prigione dolce” -, ma entrarci significa poter fare domanda di asilo politico.

Per un ragazzo nato in Camerun, però, entrare nell’”autre côté” può costare la vita. C’è chi ci prova con guanti pesanti e una scala di rami per superare l’alambrada, come gli spagnoli chiamano la tripla rete metallica, alta sei metri, che difende il confine della “Fortezza Europa”.

Sopra i rotoli di filo spinato, capita di vedere morsi di stracci e camicie, ma ormai è difficile che qualcuno ce la faccia. Chilometri di cavi d’acciaio, faretti, spray al peperoncino, telecamere, barriere “intelligenti” e proiettili di gomma permettono alla polizia spagnola di fermare la corsa dei clandestini e “affidarli” ai colleghi marocchini.

Armel aveva scelto un’altra via per entrare a Ceuta: dopo notti passate ad allenarsi in uno stagno usato dai contadini locali per irrigare, voleva attraversare a nuoto i due chilometri che la separano dalla costa marocchina. Gli era stato chiesto di portare con sé una donna incinta, trainata con una corda cui era fissata la camera d’aria di un pneumatico. Erano ancora lontani dalla costa quando la camera d’aria si è forata: nella lotta per non annegare, la donna ha perso i sensi. Il caso ha voluto che una motovedetta della Guardia Civil spagnola li intercettasse e li facesse salire a bordo.

Ma anziché portarci in salvo – racconta Armel – ci hanno riportato sottocosta in Marocco e ci hanno rigettati in mare. Ho spiegato che la donna era incinta, ma non mi hanno voluto credere. La polizia marocchina ci ha visto e ci ha aiutato a raggiungere la riva a nuoto. Ci siamo salvati, ma la donna ha perso il bambino”.

Dopo, il ritorno alla vita “cachée”, in cui, non potendo lavorare regolarmente, spesso si vive in edifici abbandonati e di elemosina, magari sentendosi urlare: “Vai a lavorare!” dai passanti marocchini. Il terrore sono le retate della polizia. Ai migranti fermati viene sequestrato il cellulare e impedito di avvisare i propri familiari; per giunta, spesso i malcapitati vengono derubati di tutti i loro averi. Mentre l’Algeria ha sospeso i rimpatri dopo l’aggravarsi della crisi in Mali, il Marocco continua.

Linda, nigeriana, racconta: “Ci hanno portato al confine e ci hanno abbandonato lì, senza niente”. Spesso finiscono così le ambizioni di una generazione in partenza, che passa i migliori anni della propria vita sognando la traversata del Mediterraneo e finisce abbandonata in ciabatte nel deserto, lungo un confine tracciato solo sulle mappe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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